La storia dello scavo di Montegibbio inizia nell’estate di 30 anni fa: Liliana e Angelo passeggiano sulle colline intorno a casa percorrendo via della Rovina fino ad arrivare ad un’ampia area di crinale. Da qui infatti, la vista è eccezionale, ammirano le montagne (il monte Cusna, il monte Valestra), tutta la vallata del fiume Secchia, la pianura sottostante con Reggio Emilia, Sassuolo e Modena. Ma la loro attenzione viene ancora una volta catturata dal campo sottostante, da cui, dopo le arature, in più di un’occasione hanno visto emergere alcuni mattoni, frammenti di ceramica e di pavimenti a mosaico e, nelle giornate più fortunate, qualche moneta.

Liliana e Angelo decidono di segnalare questo strano rinvenimento agli archeologi che lavoravano allo scavo della necropoli di Casinalbo.

I lavori di scavo a Montegibbio non iniziano subito, ma nel 2006, quando la Soprintendenza Archeologica, in accordo con il Comune di Sassuolo, decide di avviare alcune indagini mirate. L’area torna infatti ad essere al centro dell’interesse scientifico grazie alle ricerche di dottorato in archeologia di Francesca Guandalini; la ricerca è mirata a capire se in prossimità dei “vulcani di fango”, le cosi dette salse, che si trovano in una lunga fascia del territorio collinare modenese e che comprendono anche la zona di Montegibbio, vi potessero essere insediamenti antichi che in qualche modo ne avessero sfruttato le potenzialità.

Il sito archeologico è vicino al vulcano di fango più grande d’Italia, la salsa di Montegibbio, quiescente da un paio di secoli ma con attività documentata forse anche da Plinio il Vecchio. Il sito è anche vicino al Rio del Petrolio, un piccolo corso d’acqua in prossimità del quale scaturiscono polle di idrocarburi che venivano estratti a mano e usati come liquido medicamentoso sia dagli antichi romani, sia molto più vicino a noi, tra il 1400 e il 1500. Lo stesso toponimo Sassuolo deriva dal latino “sax oleum” ovvero olio di sasso.

Lo scavo di Montegibbio, col passare del tempo, diventa sempre più complesso e strutturato: iniziato infatti con due sole persone nel 2006, nel corso degli anni fino all’ultima campagna del 2014, si è trasformato in un’attività di ricerca multidisciplinare, sostenuta dalla presenza di 3 archeologi e 2 geologi affiancati dagli studenti dell’Università di Modena e Reggio Emilia e di Bologna.

Durante le ricerche archeologiche si individuano due pianori, chiamati convenzionalmente Saggio 1 e Saggio 2, divisi da una fascia di terreno naturale in cui le strutture e gli strati archeologici non si sono conservati.

Sebbene sia documentata una fase di frequentazione riferibile all’età del Rame, IV-III millenio a.C. e una fase pre-romana di III sec. a.C., l’insediamento si struttura con ambienti solo a partire dal II sec. a.C., quando, nel Saggio 2, si documenta la presenza di un grande vano in blocchi lapidei squadrati, che probabilmente conteneva la polla fangosa di una salsa.

A circa 4 m di profondità dal piano di campagna attuale viene documentata una porzione di due setti murari costituiti da grandi blocchi di pietra arenaria locale, bugnati nella facciata esterna, che dovevano formare un vano di notevoli dimensioni di cui non è ancora chiara la funzione.

Il rinvenimento particolarmente fortunato di una coppa su cui era stata iscritta con uno stilo o con uno spillone in osso una dedica votiva in latino, che recita EGO MINERVE SUM, cioè “io coppa ed il mio contenuto siamo dedicati alla dea Minerva”, ha contribuito a svelare la natura di questo insediamento: un piccolo santuario dedicato alla dea. Il nome di Minervaricorre poi graffito in altri vasi rinvenuti duranti gli scavi, in cui la dea è semplicemente richiamata dalla lettera iniziale M o dalle doppie MM, Minerva Medica. Minerva infatti oltre ad essere dea delle arti, della saggezza e della guerra è la dea che cura i propri fedeli grazie ai benefici influssi delle acque, dei fanghi.

Da un punto di vista geologico lo scavo archeologico risulta eccezionale poiché testimonia una serie di fenomeni parossistici, cioè catastrofici, legati a manifestazioni di vulcanesimo di fango, note con il nome di salse o sarse in dialetto locale. La geologia di questa zona risulta molto complessa: alla attività tettonica regionale è legata la fuoriuscita dal terreno di fluidi, ovvero gas e fanghi. In particolare, i terreni interessati dallo scavo e le deformazioni delle strutture hanno permesso di legare l’origine e la travagliata evoluzione del sito archeologico alla presenza di una salsa ora scomparsa, la salsa di Minerva come noi la abbiamo chiamata.

La “salsa di Minerva” è sia il motivo originario della costruzione del santuario sia la causa delle molteplici distruzioni subite dall’insediamento. Il grande vano in blocchi lapidei viene distrutto da una catastrofe naturale agli inizi del I sec. a.C.. L’uomo però non abbandona il sito, ma procede alla sua ristrutturazione attraverso la costruzione di una scala in laterizi e blocchi lapidei riutilizzati dal vano più antico, che si trovava nello stesso punto.

Analizzando al microscopio un campione di questa matrice terrosa grigiastra, il Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica dell’Università di Modena e Reggio Emilia ha individuato la presenza di granuli di polline con un buono stato di conservazione. Dal polline è stato possibile risalire alle piante da cui è stato prodotto e questi granuli, in base alla loro morfologia, possono essere attribuiti a piante non più viventi nel nostro territorio. In particolare, è significativa la presenza di granuli di conifere quali Tsuga e Cathaya, che non appartengono alla flora del nostro territorio da almeno 800.000 anni, ma che sono attualmente presenti in Asia e America. Inoltre, abbiamo osservato anche cisti di dinoflagellati, alghe microscopiche unicellulari e flagellate che contribuiscono al fitoplancton sia marino che d'acqua dolce (Spiniferites spp., Impagidinium spp.). Esse suggeriscono come questo sedimento grigiastro si sia forse formato in ambiente marino e che successivamente questo deposito profondo sia poi risalito in superficie.

La scala, che conduce all’esterno, è affiancata da ambienti con pavimentazioni a mosaico (opus signinum), delimitati da muri in laterizi con decorazioni pittoriche a pannelli policromi. Queste stanze dovevano essere in continuità tra il primo ed il secondo saggio, mentre ora, tra i due pianori,  vi è un’area priva di strutture archeologiche.

Le strutture archeologiche rinvenute nel cosiddetto secondo pianoro, saggio 2, si trovano a circa 4-5 m di profondità rispetto al piano di campagna originario. Questo forte dislivello nel versante è riconducibile a fratture superficiali a gradinata causate da piani di faglia sepolti, che hanno anche dislocato le strutture archeologiche verso il basso.

La parte retrostante alla scala viene protetta da un muro in laterizi che aveva la funzione sia di limite e di protezione dell’area sacra. Questo muro, agli inizi del II sec. d.C., in seguito ad una seconda catastrofe naturale, viene ricoperto da una grande colata di fango emessa dalla salsa di Minerva, la struttura muraria subisce lacerazioni da trazione ben visibili nelle spaccature dei mattoni.

Questi fenomeni deformativi sono ben visibili nel saggio 1: la grande stanza di 6x5 m con soglia d’ingresso in pietra arenaria e pavimentazione con cornice esterna formata da un meandro di svastiche alternato a due quadrati concentrici che delimitano la parte centrale formata da file ortogonali di rosette viene deformata dall’attività della salsa di Minerva. Le convessità, gli abbassamenti, le concavità, i rigonfiamenti visibili sia nei pavimenti sia nelle strutture murarie sono riconducibili all’attività distruttiva della salsa di Minerva.

In seguito alla seconda distruzione subita dal santuario, agli inizi del II sec. d.C., tutta questa zona viene abbandonata per almeno un centinaio di anni. I pavimenti, i muri vengono ricoperti da uno strato di terra che sigilla ed in parte nasconde le strutture.

Gli archeologi hanno documentato che solo a partire dagli inizi del III sec. d.C. riprende nuovamente la vita a Montegibbio, dapprima con labili strutture in legno, successivamente, a partire dal IV sec. d.C. con strutture murarie in laterizi: tre basi quadrate per colonne che costituivano un porticato.

A partire dal V sec.d.C. il porticato viene chiuso dalla costruzione di muretti in sasso che si impostano direttamente al di sopra della terra che, col passare del tempo, ha ricoperto le strutture più antiche del santuario. Ora l’insediamento antico è diventato una casa di campagna.

Gli abitanti sapevano però che in una parte del pianoro vi era la presenza di acqua: viene infatti costruito un pozzo proprio nel punto in cui la scala del santuario conduceva alla polla d’acqua e fango. 

Il pozzo, formato da una camicia in pietre d’arenaria, al momento del rinvenimento aveva all’interno della sua imboccatura metà della grande lastra che ne rivestiva la parte esterna.

Il pozzo venne infatti abbandonato dall’uomo nel VI secolo a.C.: una terza catastrofe naturale documentata a Montegibbio lo aveva reso inutilizzabile per la captazione dell’acqua. Il pozzo, originariamente circolare, ha subito uno schiacciamento secondo la direzione nord-sud ed un allungamento da est a ovest, che ne hanno deformato la forma da circolare in un ovale.

Il sito archeologico di Montegibbio viene ora definitivamente abbandonato.

Dopo 10 anni di attività di ricerca archeologica e geologica a Montegibbio, la Soprintendenza ha ritenuto opportuno, per la conservazione delle strutture, che il sito venisse ricoperto. Tale sospensione delle ricerche è necessaria perché si possa procedere alla realizzazione di un progetto di valorizzazione, grazie al quale le strutture possano essere adeguatamente fruite dai visitatori.


Nel settembre 2015, in occasione dell’edizione del Festival Filosofia dedicato al tema “ereditare”, il Comune di Sassuolo, grazie al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena ha promosso negli spazi di Paggeriarte (Piazzale della Rosa) una mostra dal titolo "MINERVA MEDICA: un santuario romano a Montegibbio ”.

I pannelli e i reperti esposti hanno accompagnato il visitatore attraverso i diversi ambiti della ricerca: la casa colonica e il santuario dedicato a Minerva, le cui traccerinvenute a Montegibbio raccontano di un culto strettamente legato alle caratteristiche del luogo; la geologia del territorio, che registra eventi disastrosi che portarono al suo abbandono; le “salse”, i piccoli vulcani di fango descritti da Plinio il Vecchio nel I sec. D. C..

Il video realizzato in occasione della Mostra ha approfondito i temi trattati attraverso le testimonianze degli esperti che hanno studiato lo scavo, arricchite dalla ricostruzione 3D dell'area e dei reperti e da immagini inedite realizzate durante i lavori di indagine archeologica.